ciclo di incontri - Novembre 1995
Quaderno n. 67
Tempo del sacro, tempo della scienza
  chiudi  
stampa questa pagina  





Il sacro e il tempo

Armido Rizzi


Oggi pomeriggio avevo a disposizione tre ore e, tra le varie possibilità che mi si presentavano, ho scelto di compiere una visita turistica di Bergamo. Voi mi chiederete cosa c’entra questo con il tema del tempo.  C’entra perché in questa semplice esperienza sono presenti le due concezioni elementari del tempo, elementari nel senso che non sono legate ad ideologie o a religioni, ma si presentano come così semplici e fondamentali che ogni analisi non può non riconoscerle.

C’è, in primo luogo, il tempo formale, cioè una certa misura di tempo che, di per sé, non dice nulla se non una certa quantità.  Si tratta di una delle prime e universali modalità con cui gli esseri umani hanno concepito il tempo: la si potrebbe rappresentare come una linea retta, suddivisibile in segmenti sempre più piccoli, e protesa verso l'infinito. Questa modalità di rappresentazione del tempo come pura misura ed estensione successiva è universale. Aristotele, infatti, definiva il tempo numerus motus secundus prius et posterius («misurazione del movimento secondo la successione»), dove per movimento non intendeva solo il passaggio da un luogo ad un altro, ma qualunque trasformazione, trasmutazione o evoluzione le cose possano subire.

Il tempo formale, allora, è la misurazione di ciò che c’è tra l’inizio e la fine, a prescindere da tutti gli aspetti qualitativi. Pensando ad una mutazione, infatti, la si pensa o in meglio o in peggio, come un’evoluzione o come una involuzione; se, invece, si coglie semplicemente ciò che il peggio o il meglio hanno in comune, cioè il fatto che ci mettono un certo tempo ad accadere, allora si ha la spoliazione del divenire (sia quello da un luogo ad un altro sia quello da uno stato ad un altro, più o meno perfetto) di tutti i suoi attributi qualitativi, e la riduzione del tempo a semplice misura.

Aristotele era dotato di un'intuizione fenomenologica straordinaria, ed a proposito del tempo formale ha detto ciò che tutti noi immaginiamo, e che conserva tutta la sua validità, cioè che il tempo scorre (normalmente lo immaginiamo scorrere da destra a sinistra, o viceversa, probabilmente in relazione al nostro sistema di scrittura); il nostro immaginario è quello di un movimento che non contiene nessuna qualità, è semplice misurazione: questo è il tempo formale.

C’è poi il tempo esistenziale. Io oggi avevo di fronte diverse possibilità e ho scelto quella che mi è parsa più opportuna. Il tempo esistenziale è l’assunzione del tempo formale per farne qualcosa, ponendo la durata del tempo formale in relazione con la mia esistenza, la quale -come dicevano gli esistenzialisti- non è soltanto il fatto di campare, di essere a questo mondo, ma il fatto, tipicamente umano, di esserci, di realizzare se stessi, progettarsi e farsi attraverso il proprio agire. Tempo esistenziale è, allora, fare un certo uso del tempo formale, numerico, di pura misura. Ma quale uso?

Qui comincia il discorso che ci avvia alla relazione tra il tempo e il sacro. Io ho scelto tra varie possibilità, e ho potuto scegliere perché il tempo formale mi veniva incontro come un tempo vuoto, rispetto al quale io non ero tenuto a fare una cosa piuttosto che un’altra. Il tempo esistenziale può essere un tempo vuoto, una specie di valigia in cui io posso mettere tutto ciò che voglio, dal momento che il contenitore è indifferente a ciò che il soggetto vi mette dentro. Così le tre ore io le ho riempite secondo un mio progetto, secondo una scelta. Ciò che ho fatto di quelle tre ore è ciò che sta alla base del sentimento moderno e profano del tempo.

Un soggetto umano che si ponga di fronte al tempo e si chieda cosa farne può rispondere in vari modi. Una risposta potrebbe essere: il tempo è denaro! e come tale va utilizzato al meglio. Un’altra risposta potrebbe essere: il tempo è la possibilità di scrivere libri! e tutto il mio tempo lo dedico a questo. Non intendo abbandonarmi alla facile denuncia del «tempo del mercante», del tempo del capitalista, tutto teso a realizzare beni economici, perché questa stessa concezione può essere vissuta anche in ordine ad altri valori. Ciò che qualifica il tempo esistenziale come tempo inizialmente vuoto, come contenitore, è la possibilità di riempirlo come si vuole: denaro, ricerca scientifica, impegno politico, attività letteraria, e via dicendo. Il contenitore vuoto viene riempito dalle mie scelte: questo è il sentimento della concezione profana del tempo esistenziale; esso rimarrebbe tale anche se uno decidesse di dedicarsi alla predicazione della parola di Dio per ventiquattro ore al giorno, perché, se è lui a decidere di fare così, il suo uso del tempo è profano, dal momento che anche la parola di Dio è subordinata alla realizzazione del suo progetto. Oggi noi ci troviamo nella situazione paradossale che, proprio a partire dal sentimento del tempo vuoto, facciamo un uso molto avaro del tempo, come se esso fosse già pieno. Il nostro tempo è un tempo vuoto, e, contemporaneamente, un tempo stipato di tutto ciò che noi abbiamo deciso di metterci dentro (è come colui che sta partendo per un viaggio e prende una valigia grandissima nella quale vuole mettere tutto, tanto che la valigia finisce per scoppiare).

Ma il tempo sacro è il tempo pieno anche in un’altra accezione. Si prenda, invece della valigia, l’esempio del calice di un fiore: di cosa si può riempire il calice di un fiore se non del fiore stesso?  Il calice, pur essendo un contenitore, non è un contenitore vuoto che possa raccogliere e accogliere qualunque oggetto, bensì un contenitore che ha un suo contenuto organico. Il calice può contenere solo il fiore. Calice e fiore sono fatti l’uno per l’altro.

Questo è il tempo sacro: un tempo dove tutto ciò che accade, accade non per la realizzazione di miei progetti, ma perché esso mi viene incontro già pieno di doni e di compiti, doni a cui dire il sì del ringraziamento, compiti a cui dire il sì della disponibilità. Questa dimensione del tempo portatore di doni e di impegno affinché il dono si manifesti nella sua bontà, in molte culture religiose è stata connaturale, così come a noi è connaturale chiederci, di fronte al tempo che abbiamo a disposizione, «cosa ne faccio?». Cogliere il significato del tempo sacro, concepito come il tempo pieno di doni e di compiti che si porta dentro, è un passaggio obbligato per entrare in sintonia con queste diverse tradizioni culturali.

Detto questo, dobbiamo riconoscere che c’è più di un modo per configurare il tempo pieno. La storia delle religioni ci presenta due grandi figure del tempo coniugato al sacro, che gli studiosi chiamano il tempo cosmico o tempo ciclico, e il tempo lineare.

Il tempo cosmico

La concezione cosmica del tempo ha il suo luogo privilegiato nel mito. Il mito è una vicenda accaduta all’origine del tempo e avente per protagonista una divinità. I due incisi di questa proposizione sono sostanzialmente sinonimi; origini del tempo e divinità dicono la stessa cosa, cioè che quanto il mito racconta non è legato a questa o quella situazione contingente, ma costituisce una costante, anzi una struttura della vita del mondo.

Questa concezione cosmica è caratterizzata dalla ciclicità, ma non si deve pensare che questo sia una negazione della linearità del tempo. Anche il tempo ciclico va in una direzione, per cui ciò che è stato è stato, e tutto ciò che viene ad un certo punto sarà stato. Il senso del passato, presente e futuro, e del tempo che procede irreversibilmente come una linea, è comune a tutte le culture.

Il tempo sacro ciclico si disegna come un cerchio non in quanto tempo formale, ma per i suoi contenuti, per i doni e i compiti che porta con sé. I doni e i compiti che il tempo porta all’uomo da parte degli dei si ripetono continuamente, in fondo sono sempre gli stessi, ed hanno la figura di un cerchio legato al ciclo della natura, un ciclo che è quello delle stagioni e dell’anno. Anche noi oggi comprendiamo questo ciclo, perché anche per noi il cambiamento di stagione significa cambiamento di abitudini (il tempo delle ferie, il tempo di accendere il riscaldamento, ecc.), con la differennza però che per noi la natura è solo una cornice, mentre il quadro dipinto dentro la cornice è quella struttura dell’esistere che è ampiamente condizionata dalla società in cui viviamo, cioè una società fondata sulla produzione e sul mercato. Per i soggetti umani il cui tempo è ciclico la natura non è la cornice. La natura è il quadro, il contenuto. Allora il lavoro non è indipendente dai cicli della natura, come lo è per l’industria ed il commercio. Il lavoro è lo sfruttare i frutti che la natura porta, i quali non diverrebbero frutti maturi senza il lavoro degli esseri umani. Frutto della terra e del lavoro diciamo ancora all’Offertorio. Il tempo ciclico allora è il tempo che dona e chiede lavoro, ma i suoi doni sono sempre quelli, perché sono i doni della natura.

Pur non negando il tempo lineare (anche gli uomini religiosi primitivi hanno ben chiaro il senso della parabola della vita), per il tempo ciclico tutto torna; se finisce la vita individuale, non finisce la vita del cosmo e nemmeno quella del gruppo che è il vero soggetto in sintonia con il cosmo. La vita individuale vale meno della vita del gruppo, e ciò che si vede inscritto all’interno della vita cosmica è la comunità.

La vita cosmica ha questa figura ciclica di eterno ritorno. L’eterno ritorno a noi sembra un girare a vuoto, un ripetere continuamente le stesse cose. Per noi è interessante solo ciò che è nuovo, originale, creativo. Una cosa che torna continuamente su se stessa ci dà il senso della sazietà, della noia, il senso del non-senso. Si pensi a Leopardi e allo stupendo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Leopardi chiede alla luna perché continui a ripetere lo stesso giro, che senso ha. Non solo, anche lui fa come la luna, ripetendo continuamente lo stesso tracciato, lo stesso itinerario. Somiglia alla vita della luna la vita del pastore, ma almeno la luna ha una specie di esistenza divina, e forse sa il perché del suo girare. Lui no.

Leopardi esprime con passione questo sentimento del tempo ciclico come un girare a vuoto, ma sbaglia quando proietta sul pastore errante dell’Asia un sentimento di disincanto dal mondo che è suo, e che è diventato anche nostro. Il pastore errante dell’Asia guarda il ciclo della luna e vede scritto in esso il proprio destino, che non è un destino di insulsaggine, bensì la legge stessa della vita. La luna passa attraverso cicli di morte e di rinascita: questa è la parabola della vita di noi esseri umani, che quando moriamo risorgiamo negli altri, facendo continuare la fiaccola della vita. Quando dunque il pastore dell’Asia, o il contadino delle nostre campagne, guardano la luna, non vi leggono un destino disperante di monotonia, ma vi leggono un destino di senso, vi leggono il fatto che la legge della vita è questo ricostruirsi continuamente attraverso la morte. In questo destino vi è anche una componente di rassegnazione, ma prima ancora vi è la capacità di cogliere il positivo che ogni mese la luna, o la natura nel suo insieme ogni anno, portano; quel positivo che agli occhi del grande Leopardi, e forse anche dei nostri, si è ormai eclissato.

Questa, del tempo sacro cosmico, è la prima figura del tempo sacro.

Il tempo sacro lineare

Il tempo sacro circolare vive e regna dove la natura è l’incarnazione del divino e del sacro: dove la natura si identifica con il sacro non si può andare al di là delle leggi di natura stesse, leggi intese non nel senso fisico o meccanico, ma nel senso esistenziale di continuo rinnovamento dei doni essenziali per la vita. La ciclicità del tempo cosmico è fondata sull’identificazione tra divinità e terra, tra principio del sacro e struttura della vita naturale. Il tempo è circolare perché lo sono i ritmi della vita.

Ci sono religioni, ed in particolare la tradizione ebraico-cristiana cui apparteniamo, in cui il divino si è trasformato: ha assunto una figura diversa e si fa conoscere come parola, e dunque come persona, dal momento che la parola fa riferimento sia all’intelligenza sia alla volontà, le due componenti dell’essere soggetto. Il divino come soggetto, come parola che entra nella storia facendo una promessa: questo è Israele. Il divino appare come un essere personale che non è slegato dalla natura, ma che crea la natura stessa e la governa. Prende un gruppo di persone che si trova senza identità in terra straniera e dice: «Io vi porto là», e quel «là» è davvero un luogo, un inedito. Si parte cioè da un punto negativo e si arriva ad un punto positivo da cui non si torna più indietro.

Qui compare un tempo sacro (sacro perché scritto da Dio) che non ha più la figura del cerchio. Gli studiosi lo chiamano tempo lineare. La definizione mi sembra insufficiente e tale da indurre ad una serie di equivoci. La linearità del tempo sacro non è connessa con la sua natura di essere una misura dei cambiamenti. Qui si tratta, semmai, di una linearità ascendente, di un tempo tendenziale che consiste, esattamente come il tempo della promessa, in un tempo pieno il quale, pur non possedendo già il bene di cui fruire, è tutto proteso verso il bene che verrà. É una figura nuova di tempo: è il tempo pieno della promessa di Dio, la fondazione stessa del tempo che muove tutta verso la promessa.

La religione di Israele spezza l’identità Dio-terra; rivelandosi in avvenimenti storici puntuali, Jahwè mostra di non essere legato alle leggi e ai corsi della natura, di essere «altro» rispetto a loro, di una alterità che non è indifferenza, ma signoria. Ancora: questa signoria, Jahwè la esercita ora su Israele, facendone il «suo» popolo, chiamato all’alleanza con lui nell’osservanza delle sue leggi. É questo rapporto d’alleanza a definire il nuovo tempo di Israele: non più cosmico, dunque, ma esistenziale, non più disteso sui cicli della natura, ma misurato dalla parola di Jahwè e dall’obbedienza del popolo.

Non basta. Quando Israele arriva sulla terra promessa, si verifica una serie di fatti, sui quali non possiamo soffermarci, che inducono Dio a rinnovare la sua promessa rilanciandola in avanti e dandole un nuovo oggetto. Questo mondo non va come Dio vuole, ed il nuovo contenuto della promessa si configura in maniera abbastanza determinata dicendo che il mondo va verso la fine. Pertanto, il tempo non può essere ciclico, poiché, se così fosse, significherebbe che gli umani, ad ogni ciclo, ottengono dal tempo tutto ciò che esso può dare. Per Israele non è così. Solo alla fine del tempo Dio darà tutto ciò che può dare: il suo Regno; ed è verso questa fine che il tempo cammina.

Questa idea del tempo in cammino verso ha fecondato la teologia di importanti autori negli ultimi decenni. A me interessa mostrare che essa manifesta una figura di tempo pieno irriducibile a quella del tempo ciclico, in cui la pienezza si riferisce non a ciò che già c’è, ma alla certezza di ciò che sarà. É il pieno dell’attesa. Un’attesa che non è inerte, né confinata nell’ambito del desiderio, ma una tensione operante. Paolo dovrà spesso richiamare questa concezione ai cristiani delle prime comunità, i quali, nell’attesa del giorno del Signore, incrociavano le braccia, ritenendo che fosse ormai inutile lavorare: il giorno del Signore lo si attende impegnati.

Per integrare il discorso, accenno alla trasformazione che questo tipo di tempo sacro, ascendente verso la pienezza definitiva e ripieno della sua attesa, ha subìto nel Sette-Ottocento. In questo periodo il tempo sacro si è secolarizzato, intendendo per secolarizzazione il rifiuto di riconoscere che il tempo in cammino venga da Dio e vada verso il suo Regno. Ormai non abbiamo più bisogno di Dio e del suo Regn; tuttavia, che il tempo sia in cammino verso un «di più», è la ragione stessa a dircelo. Le visioni evoluzionistiche della natura (Darwin), e soprattutto della storia (Illuminismo, Marxismo) sostituiscono a Dio la ragione, al Regno di Dio il futuro regno dell’uomo, mantenendo la concezione del tempo teso verso la pienezza. Tempo pieno di attesa, quindi, a cui bisogna collaborare, per esempio attraverso la rivoluzione, che è la levatrice della storia (Engels), in grado di portala là dove essa deve andare. Tutto il mondo deve partorire il regno pieno dell’uomo, e per far questo ha bisogno di qualcuno che l’aiuti, perché da sola la storia non procede: questo è il compito della rivoluzione.

Pur avendo messo Dio tra parentesi, questa concezione testimonia in modo chiaro di far propria l’eredità ebraica, con la sua concezione del tempo in cammino verso l’èskaton, il tempo finale che sarà il tempo pieno. La secolarizzazione non solo ha estromesso Dio dal mondo, ma ha consegnato nelle mani della ragione umana tutta la concezione biblica del tempo. Quando si dice che i grandi racconti dell’Illuminismo, e soprattutto del Marxismo, sono una laicizzazione del grande racconto biblico, si intende proprio questo: anch’essi mettono in opera lo stesso tipo di temporalità, un tempo gravido di attesa verso il suo compimento.

Il tempo cristiano

Il tempo cristiano riprende la concezione ebraica, ma con una innovazione. Anche per i cristiani il tempo è tutto sotteso al progetto di Dio: verranno gli ultimi tempi, e verranno col comparire di una figura, quella dell’inviato di Dio, il Messia. I cristiani dicono che il Messia è venuto, è morto e risorto: è Gesù di Nazareth.

Il tempo cristiano si trova in una situazione difficile da descrivere, che viene indicata con la formula già e non ancora. Già vuol dire che il Messia è già venuto, e, se è venuto il Messia, in qualche modo è venuta la fine dei tempi, perché il Messia porta con sé la fine dei tempi. E’ chiaro tuttavia che il tempo continua.

I cristiani all’inizio pensavano davvero che il tempo fosse finito e che l’arrivo del Messia portasse con sé la venuta del Regno. Ma i decenni passavano senza che il Regno facesse la sua comparsa. In molti subentrò la rassegnazione. Fu Luca ad interpretare il tempo che stava vivendo in maniera nuova. Vivere nei tempi ultimi non significa vivere alla fine dei tempi, significa invece che nella storia è presente un principio nuovo: lo Spirito di Gesù. Seguendo questa nuova idea, Luca prima scriverà la storia di Gesù, e poi la storia della chiesa primitiva, che è la storia dello Spirito operante in mezzo alla storia degli uomini.

Siamo nel già perché abbiamo lo Spirito che Dio aveva promesso di mandare negli ultimi tempi, tuttavia la storia non è finita come le prime comunità pensavano. Ai Corinti che, felici per i loro carismi, pensavano già di essere nel Regno, Paolo dice che c’è un solo carisma necessario e sufficiente: l’amore concreto, l’amore paziente che opera il bene. Non siamo alla fine e, nel frattempo, l’amore opera nella storia per rimarginare le nostre ferite. Lo Spirito ci è dato come caparra, per usare un’espressione di Paolo.

Attraverso la loro esperienza religiosa, i cristiani hanno elaborato diverse modalità per dire cos’è il tempo cristologico.

1) Tempo cristologico vuol dire ciò che intende Giovanni, quando nel suo Vangelo fa incontrare Gesù da discepoli, e futuri discepoli, in tutte le ore del giorno. Maria lo incontra al mattino di Pasqua, a mezzogiorno lo incontra la Samaritana, alle quattro del pomeriggio i primi discepoli, e di notte Nicodemo. Credo che Giovanni voglia dire che ogni istante è carico cristologicamente, in ogni istante il Signore della storia ci chiama alla fede in Lui e all’obbedienza d’amore nel far lievitare la storia. Questo è un già, ma è anche un non ancora, perché è un aderire a Lui senza vederlo.

2) Una seconda interpretazione, legata alla prima, vede l’istante cristologico come apertura alla missione dell’amore; un istante, dunque, che fa fruttificare la stori; si tratta di un già perché cambia il mondo, e di un non ancora perché il mondo cambia sempre per frammenti, piccole prefigurazioni del Regno, che però non sono il Regno. L’istante messianico è il tempo della decisione (faccia soggettiva), e della fruttificazione (faccia oggettiva); è una decisione che non si consuma nell’interiorità del soggetto umano: la sua posta in gioco è la vita sulla terra, la riuscita del rapporto con le cose, la pienezza dei beni naturali e sociali.

3) Una terza figura, già presente nell’ebraismo ma che diventa più compiuta nel cristianesimo, è legata all’anno liturgico. L’anno liturgico è un tempo che recupera la dimensione ciclica del tempo, riempiendola non più dei doni della natura, ma del racconto del memoriale della vita di Gesù, un evento avvenuto una sola volta nel passato, ma la cui efficacia è presente in ogni istante della storia. Il tempo ciclico viene riempito con un nuovo contenuto, il memoriale della vita di Gesù che viene ricordata e celebrata cercando di sposarsi anche con il tempo naturale. La Pasqua è primavera e la Resurrezione di Cristo coincide con la rinascita della natura (questa contemporaneità funziona solo nell’area mediterranea, d’altra parte il cristianesimo è un fenomeno culturalmente condizionato, problema questo che teologi e pastori dovrebbero affrontare). L’idea originaria dell’anno liturgico è quella di recuperare il tempo circolare nella sua ricchezza di doni, per riempirlo di quel dono definitivo che è la vita di Gesù di cui si celebra il memoriale.

In questa conversazione ho sottolineato solo alcune figure del tempo sacro. Lo scopo era quello di trasmettere, con un linguaggio a metà tra il rigore filosofico e la suggestione simbolica, un minimo dell’esperienza che è sottesa alle diverse figure del tempo, e tale da offrire elementi di critica e di valutazione a chi voglia descrivere la situazione attuale, per cercare di intravederne le implicazioni in ordine a una prassi concretamente instauratrice di senso.

(testo ripreso dal registratore e non rivisto dall’Autore)

 

 

logo - vai alla home page
Fondazione Serughetti Centro Studi e Documentazione La Porta
viale Papa Giovanni XXIII, 30   IT-24121 Bergamo    tel +39 035219230   fax +39 0355249880    info@laportabergamo.it